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Perché Márquez, Wallace e McEwan sono finiti a Austin?

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Pubblichiamo un articolo di Riccardo Staglianò apparso su Repubblica e in seguito sul suo blog, ringraziando l’autore e la testata.

Norman Mailer prova a spiegare in una lettera a Bea, la prima delle sue sei ex mogli, che l’essere andato in escandescenze non fa di lui uno psicotico. Ian McEwan disegna la Terra e il sole al figlio William per fargli capire quanto, pur geograficamente lontani, restino emotivamente vicinissimi. David Foster Wallace mette in chiaro con gli studenti le draconiane regole di ingaggio del suo corso di inglese. Ci sono i manoscritti di John Maxwell Coetzee, rilegati da lui medesimo in cartone ondulato. C’è la foto in bianco e nero di tripudio domestico dove Mercedes Barcha bacia sulla guancia, nel giardino di casa, il marito Gabriel García Márquez che ha appena appreso di aver vinto il premio Nobel.

L’archivio dell’autore di Cent’anni di solitudine è l’ultimo arrivato all’Harry Ransom Center (Hrc) dell’università del Texas ad Austin, un super-caveau delle lettere che cresce come nessun altro al mondo. E che in questi giorni ha dedicato un convegno allo scrittore colombiano invitando Salman Rushdie per un tributo. Ma perché, di tutti i posti, le spoglie cartacee di queste e molte altre superpotenze letterarie finiscono proprio qui? L’università del Texas, nella classifica di Us News&World Report, arriva cinquantaduesima. Eppure l’Hrc ha stracciato i suoi omologhi di Yale e Harvard quanto a forza attrattiva. Che è un po’ come se Messi, invece di giocare nel Barcellona, decidesse di preferirgli l’Empoli. Ci dev’essere un trucco, ma quale?

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Qualche mese fa sono andato a vedere. Il cubo di calcare e vetro, nella cittadella studentesca, assomiglia più a un deposito di lingotti che di libri. Con un centro modaiolo e festival di culto come il South by Southwest Austin ha fatto miracoli nello scrollarsi di dosso i cliché petrolio&pistole dello stato di cui è capitale. L’onda hipster ha però risparmiato questa zona, dove nella pause tra le consultazioni trovi giusto un furgoncino che abbrustolisce costolette di maiale e poco altro. Qui si viene in cerca di cibo per la mente. Entrare è facile. In teoria è un luogo per ricercatori, in pratica basta dimostrare che vi interessate a un certo autore e nessuno farà storie.

Un video preliminare vi dà le istruzioni per l’uso e qualche avvertimento solo all’apparenza banale, tipo non strusciare con i gomiti sopra gli incunaboli (hanno anche una delle ventitré copie complete della Bibbia di Gutenberg, comprata nel ’78 per 2,4 milioni). A quel punto avete accesso alle sale. Un bibliotecario vi mostra come reperire i materiali sui computer. Una volta fatta la selezione (massimo cinque contenitori per volta) entro un quarto d’ora un inserviente vi consegnerà questi parallelepipedi grigio topo pieni di faldoni da consultare su bei tavoli di rovere. Vi mettono anche a disposizione fogli gialli e matite per gli appunti. Una pacchia, a metà strada tra un Luna Park e uno spettacolo per voyeur bibliofili.

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Il centro deve il suo nome a Harry Huntt Ransom, preside dell’università negli anni ’50, che denunciò lo scandaloso scarto tra la povertà dei giacimenti librari rispetto alla ricchezza dello stato. I petrolieri, punti sul vivo, misero mano al portafogli. E l’università, che siede sul Bacino Permiano e possiede quindi i diritti minerari di un certo numero di pozzi, lo autorizzò a usare un po’ di quel denaro per le acquisizioni. All’inizio furono i modernisti britannici, da Beckett a Joyce, con un’intensità tale che il poeta Philip Larkin lanciò l’allarme che se continuava così tutti gli scrittori in lingua inglese sarebbero finiti in America.

Nell’88 nominano direttore Thomas Staley, tanto colto studioso di Joyce quanto una forza della natura nella raccolta fondi. Sotto il suo regno le dotazioni finanziarie passano da un milione di dollari a venticinque. Nella lista dei filantropi da oltre 100 mila dollari figurano i coniugi Jeanne and Michael L. Klein, benedetti dagli idrocarburi, e il finanziere David G. Booth che aveva già stabilito il record di munificenza verso un’università (300 milioni di dollari alla business school di Chicago, poi ribattezzata a suo nome). Il primo colpo grosso di Staley è un tesoretto di materiali joyciani che fa uscire dalla Francia, temendo problemi doganali, nascosti in un furgoncino del pane alla vigilia di Pasqua.

Ci troveranno, tra l’altro, le correzioni a mano del dublinese al primo capitolo di Finnegans Wake, sin lì uno dei principali anelli mancanti. Poi è la volta dell’archivio di Tom Stoppard, Isaac Bashevis Singer, Bernard Malamud, Julian Barnes, Don DeLillo, Norman Mailer, David Foster Wallace, materiali di Graham Greene, J. M. Coetzee, oltre a Borges, Lessing, Queneau, documenti del Watergate (5 milioni), lettere di Steinbeck e via elencando. Il tutto assicurato, già qualche anno fa, per un miliardo di dollari.

Di tutte le attrazioni ospitate all’Hrc la più globalmente magnetica, mi ha spiegato la curatrice Megan Barnard, è l’opus wallaciano: «Nel 2014 seicento ricercatori da tutto il mondo sono venuti a consultare i quarantaquattro scatoloni e otto faldoni, più 321 libri che gli appartenevano e che maniacalmente glossava». Tra le cose meno note, i programmi dei suoi corsi all’università, con i caveat circa la qualità delle opinioni da sviluppare («”Pensavo che la poesia fosse, cioè, ok” non vi porterà molto lontano. Invece qualsiasi cosa sincera, ogni prodotto di una reale attività neurologica va bene»).

Oppure gli elenchi idiosincratici di parole nuove o poco arate in cui si imbatteva e che compilava in nitidi fogli dattiloscritti, da Bremsstrahlung (una particolare radiazione elettromagnetica) a epiclesi (la parte dell’eucarestia in cui è invocato lo Spirito santo). Dà una sensazione ambivalente rovistare tra queste carte. Da una parte l’entusiasmo di avere un osservatorio così intimo nel sistema operativo di un autore idolatrato. Dall’altra la vergogna di sbirciare senza il suo permesso. Pare che Mailer, quando andò a vedere gli scaffali dove la sua corrispondenza sarebbe finita, rispose così: «È senz’altro appropriato. In un modo o nell’altro finiremo tutti in qualche scatola».

Chi apre le casse spesso si imbatte in piccole sorprese, come un mezzo sandwich ormai vetrificato e un calzino spaiato tra gli scartafacci di Singer. Dai materiali di DeLillo si ha la conferma che il titolo di Rumore bianco doveva essere Panasonic e si apprezza quanto fu seccato dall’indisponibilità dell’azienda giapponese a farglielo usare (tra i titoli alternativi anche All Souls e Ultrasonic).

Con il congedo di Staley nel 2013, oggi il capo è Stephen Enniss, che a Washington dirigeva la più grande biblioteca shakesperiana al mondo. Non c’è segreto, dice, solo buoni ingredienti. «Le acquisizioni vengono fatte grazie a un mix di fondi del centro, dell’università e di filantropi privati». Una sottile linea nera, bituminosa, tiene insieme i tre soggetti, ma il direttore sembra ritenere volgare menzionarlo. Ricorda invece «la meritata reputazione di eccellenza nella catalogazione e nella conservazione. E il fatto che si siano già accasati qui autori molto importanti, facilita l’arrivo di altri di pari livello».

Il motivo per cui al cimitero del Père-La Chaise hanno voluto finirci, nei secoli, da Balzac a Jim Morrison. Non c’è modo di estorcergli quale sia il suo frammento preferito. Padre salomonico, si limita a dire che è rimasto molto affascinato dai blocchi di McEwan per Espiazione e un incartamento di racconti con l’etichetta «completi ma abbandonati» («Sono sempre attratto dai manoscritti che un romanziere decide di non pubblicare»). Quanto alle prossime acquisizioni, saranno in linea con «il Dna creativo che lega le attuali». Il pasto marqueziano è stato assai fiero. Ci vorrà tempo per smaltirlo.

Riccardo Staglianò è nato a Viareggio nel 1968 ed è giornalista de la Repubblica. Ha iniziato la sua carriera come corrispondente da New York per il mensile Reset, ha poi lavorato al Corriere della Sera e oggi scrive inchieste e reportage dall’Italia e dall’estero per il Venerdì. Per dieci anni ha insegnato nuovi media alla Terza università di Roma. Nel 2001 ha vinto il Premio Ischia di Giornalismo, sezione giovani. Nell’ottobre 2011 ha portato in Italia (Reggio Emilia) le Ted Conference, format americano nel quale le migliori intelligenze internazionali sono invitate a tenere discorsi della durata di 18 minuti sui temi più diversi. È autore di vari libri, tra cui: Bill Gates. Una biografia non autorizzata (Feltrinelli, 2000), Cattive azioni. Come analisti e banche d’affari hanno creato e fatto sparire il tesoro della new economy (Editori Riuniti, 2002) e L’impero dei falsi (Laterza, 2006) sul traffico di merci contraffatte dalla Cina all’Europa. Per Chiarelettere ha pubblicato con Raffaele Oriani I cinesi non muoiono mai (2008), Miss Little China, che accompagna l’omonimo documentario di Riccardo Cremona e Vincenzo de Cecco (2009), Grazie (2010). I suoi libri più recenti sono: Toglietevelo dalla testa(Chiarelettere 2012), un’inchiesta sul potere e gli interessi delle lobby dei produttori di cellulari, e sul rapporto tra uso del telefonino e tumori alla testa; Occupy Wall Street, il reportage dentro la protesta (Chiarelettere, 2012). Su Twitter è @rsta.

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